Il mitragliere Sciarrotta Salvatore, un toccante episodio di coraggio ed altruismo
Il 28 ottobre 1940, il governo italiano dichiara guerra alla Grecia. Il 4 novembre a quota 454 di Kalibaki infuria la battaglia. I Fanti del 47° Rgt. Ftr. della divisione Ferrara, sono accerchiati da preponderanti forze nemiche, sistemate in una posizione strategica più vantaggiosa a monte di Kalibaki. Il capoarma, mitragliere Sciarrotta Salvatore, constatata la precaria situazione riusciva ad avere alto lo spirito e con un atto di coraggio ed altruismo, rincuorava i suoi commilitoni invitandoli a porsi in salvo. “Terrò lontani i Greci con la mitragliatrice! “, disse, in tempo utile per consentire ai suoi amici di mettersi al riparo. Il Fante Sciarrotta Salvatore veniva colpito in pieno petto da una granata nemica. Decedeva all’istante. Pagava con la vita il suo gesto coraggioso. I suoi compaesani, che si sono salvati e che hanno raccontato l’episodio, sono stati: Anzini Salvatore dopo la guerra, emigrò in America e vive tuttora; Lopez Salvatore dipendente dell’Istituto Agrario locale, scomparso l’anno scorso; Mazzei Salvatore gravemente ferito sul fronte, dipendente del Comune ora in pensione, grande invalido, porta ancora i segni delle numerose ferite. Sciarrotta Salvatore era nato il 3 novembre 1920. E’ morto in seguito a ferite per fatto di guerra il 4 novembre 1940 a l’età di 20 anni. Dagli Atti del 47° Rgt. Ftr: risulta sepolto sul campo, testi: soldato Francone Domenico; Cap. Gabinelli Michele; Ten. Cappellano Creanza don. Guido. Secondo il Ministero della Difesa, invece, Commissariato Gen. Onoranze Caduti in Guerra, ad una risposta data ai familiari, si afferma che “si presume che i resti mortali del Soldato Sciarrotta Salvatore siano custoditi fra quelli degli “Ignoti” del Sacrario Militare dei caduti d’Oltremare di Bari. Incertezze e contraddizioni sconcertanti. L’atto eroico del soldato Sciarrotta Salvatore non poteva essere meglio “onorato” da una patria ingrata e perduta. Neppure la possibilità di deporre un fiore sui resti mortali.
L’affondamento della nave da guerra il “Conte Rosso”
Era il 24 maggio 1941 quando la nave da guerra il “Conte Rosso” con un carico umano di ben 3.500 soldati diretti in Cirenaica veniva colpita ed affondata dagli Inglesi nel Canale di Sicilia. Dei tremila e cinquecento militari stipati nella nave ne furono salvati circa 2 mila. Gli altri 1500 sono periti in mare e dichiarati dispersi. Tra i militari affondati vi erano i marconisti: Iaquinta Pietro Maria di Giuseppe e di Ferrarelli Maria; era nato il 02/12/1921 ed abitava in via Vallone del nostro comune; Veltri Antonio di Salvatore e di Guarascio Teresa; era nato il 05/11/1921 ed abitava in via San Francesco Simigali. Sono caduti nell’adempimento del loro dovere, non ancora ventenni.
La tragedia dell’8 settembre. Morti e feriti civili in Sila
Era il 3 settembre 1943, lo stesso giorno in cui l’Italia a Cassibile firma l’armistizio. Un aereo angloamericano in località Valle Piccola spara una raffica di mitraglia contro i contadini Astorino Giovanni di anni 55 e di suo figlio Pietro di anni 18. Gli sfortunati rimangono uccisi sul colpo assieme al loro asino. Rimangono invece i buoi che trainavano un carro agricolo che forse i nuovi alleati avevano scambiato per un carro armato! Con altra raffica nei pressi del bivio Garga, viene colpita un’autovettura, auto rara in circolazione all’epoca, nella quale viaggiavano il Cav. Angelo Colella, sua moglie e l’autista Urso Bernardo. La signora Colella rimaneva uccisa, mentre l’autista e l’industriale di legname con segheria in località San Bernardo, rimanevano feriti. Bisogna evidenziare che nella zona non vi erano obiettivi militari, ne soldati italiani o tedeschi. Del tutto ingiustificata l’azione dell’aereo angloamericano soprattutto perché ha sparato, ucciso e ferito persone civili innocenti e indifesi. La famiglia Astorino aveva già perduto un altro figlio in guerra: Francesco Saverio della classe 1912 caduto sul fronte in località Monastir Codea Ponte Degali il 16 marzo 1941. L’altro figlio Giuseppe della classe 1923 era con me in località Decima alla difesa di Roma l’8 settembre quando venne catturato dai tedeschi portato in Germania ove rimase prigioniero per due anni.
Racconti di guerra, narrati dal protagonista. Dalla tragedia dell’8 settembre 1943
Il mitragliamento angloamericano, per arroganza, prepotenza o errore umano? Il giorno 16 settembre 1943 ero nei pressi di Contursi (Salerno) quando un caccia angloamericano in fase di perlustrazione delle retroguardie tedesche sull’arteria stradale da sud verso nord, spara una raffica di mitragliatrice verso due camion militari tedeschi dai quali fuorusciva fumo in quanto colpiti ed incendiati alcune ore prima, stavano bruciando. Mi ero incuriosito, fermato stavo osservando i camion, quando con i miei occhi vedo due militari “tedeschi” che si aggiravano dentro una casetta colonica nel sottostante vigneto. Forse erano gli autisti dei due camion colpiti e incendiati che aspettavano le truppe angloamericane per darsi prigionieri. Non c’è altra spiegazione. Ma io intanto ho rischiato di rimanere colpito se con un balzo e con l’energia dei miei venti anni non mi fossi gettato sotto un pontino della strada. Senza documenti, quasi nudo, avrei fatto la fine del disperso in guerra. Ho potuto constatare di persona che le truppe tedesche in ritirata erano perlomeno ad oltre cento km. di distanza. Non vi era, pertanto, nessun motivo perché il caccia in perlustrazione nelle retrovie nemiche doveva calarsi in picchiata e mitragliare due automezzi già colpiti in precedenza, incendiati e distrutti.
Il campo di Ferramonti di Tarsia, una ignobile falsificazione storica!
La piccola nave “Pentcho” partita dal porto fluviale di Bratislava nel maggio 1940 era diretta verso Israele con un carico di ebrei che, ritenendosi perseguitati dai Nazisti, avevano cercato scampo con la fuga in Oriente. Nel porto del Danubio avevano preso la nave Ungheresi, Polacchi, Tedeschi, Austriaci, Jugoslavi, Greci. La piccola nave dopo un lungo ed avventuroso viaggio, nell’ottobre 1940 si arenò nel mare Egeo presso l’Isola di Rodi. I naufraghi erano all’estremo delle loro forze, senza acqua e senza cibo da oltre dieci giorni. Provvidenziale la presenza nella zona e l’intervento della Nave Militare della Marina Italiana, la “Camogli” che soccorse e salvò tutti gli ebrei. Dopo essere stati rifocillati vennero affidati alle autorità terrestri competenti, che li avviarono prima a Castelnuovo in Piemonte e poi, a causa dei bombardamenti aerei, li spostarono in una zona più sicura: a Ferramonti di Tarsia in Calabria. Agli ebrei si unirono alcuni antifascisti. Al campo di Ferramonti a tutti gli ospiti fu riservato un trattamento civile ed umano. Non vi fu un solo episodio di violenza. E’ una menzogna voler attribuire al campo di Tarsia la denominazione di “Lager” al pari di quelli veri di Buchenwald, di Mathausen, di Auschwitz o di quelli recenti di Treblinka, o di Vukovar della ex Jugoslavia. Ma facciamo parlare i fatti, i protagonista; gli ebrei e gli abitanti del posto. Bisogna innanzitutto evidenziare che gli ebrei furono salvati dai marinai italiani in pieno periodo fascista. Nel Campo di Ferramonti la vigilanza era affidata alla Milizia fascista. Nel Campo vi erano bar e spaccio. N.N. di Mongrassano ci tiene di far sapere che gli ebrei potevano recarsi a Cosenza in permesso per acquistare quei prodotti che non si trovavano nello spaccio del Campo. Gli internati di Ferramonti, racconta l’austriaca Rita Fock, furono fortunati, poiché nel settembre 1943 venivano “liberati”; per gli ebrei rimasti al Nord invece, cominciò il terribile viaggio senza ritorno dai luoghi di sterminio nazisti. I militi del Campo facevano finta di non vedere e così i contadini, sia pure attraverso il filo spinato, potevano rifornire gli ospiti: polli, uova, angurie, pomodori ecc. ecc.
Nei pressi del campo vi era un acquedotto di raccolta delle acque per uso irrigazione; fu costruito dal fascismo negli anni 30 con la bonifica integrale, com’è avvenuto in Puglia, nel Lazio e nella valle del Neto. I bambini accompagnati dalle loro madri potevano fare il bagno. Al centro del Campo si facevano perfino gare calcistiche. La signora Serafina Mauro che all’epoca aveva dieci anni ci ha raccontato: “nei primi giorni di settembre 1943, i tedeschi in ritirata, si sono fermati ai lati della S.S. 106 nei pressi del Campo di Ferramonti. Due militari che si aggiravano nella zona, hanno notato i miei familiari, preoccupanti per l’alta febbre che mi aveva colpito a causa della malaria. I due militari si offrirono di fornire un farmaco. Il tempo di andarlo a prendere sul loro automezzo dov’eran accampati. Tornarono subito e mi son ministrarono una dose di sciroppo. Aspettarono circa un’ora prima di andar via. Hanno voluto vedere prima l’effetto farmaco e quando hanno constatato che la febbre era quasi scomparsa se ne andarono contenti, lasciando circa un quarto di litro di quel farmaco che poi venne usato anche per gli ebrei del Campo.
II Polacco Abmaham Chlodnik nato a Varsavia il 28/11/1912, ospite del Campo di Ferramonti, dopo l’otto settembre 1943 poté insediarsi in Sila a San Giovanni in Fiore dove si è sposato ed ha potuto esercitare la libera professione quale medico condotto del comune. Il Dr. Chlodnikè deceduto il 06/02/1984 ed è stato tumulato nel locale Cimitero senza alcuna discriminazione ne da vivo ne da morto. Sono pertanto un falso storico le manovre tendenti ad attribuire al Campo di Ferramonti di Tarsia le stesse atrocità dei campi di sterminio nazisti. Nessun confronto, nessuna analogia, ma soltanto la faziosa fantasia degli inventori del Lager che non è mai esistito ne per antisemitismo, ne per razzismo!
Antonio Sciarrotta
Città di Gioacchino n. 19